LA CORRETTA GESTIONE DEL CONTO CONDOMINIALE
Una delle attività peculiari dell’amministratore di condominio, che rientra tra quelle che richiedono particolare attenzione e rigore ai fini di una sua compiuta trattazione, è quella relativa alla gestione del fondo condominiale. Con tale espressione si intende far riferimento al denaro che i condòmini periodicamente versano per far fronte ai propri oneri condominiali e che oggi l’amministratore, a seguito della modifica dell’art. 1129 del codice civile operata dalla L. 220/2012 (cd. Riforma del condominio), è obbligato a far transitare (a qualunque titolo ricevuto, non solo dai condòmini ma anche da terzi) su uno specifico conto corrente - postale o bancario - intestato al condominio; l’amministratore è, in altre parole, obbligato ad accendere un conto corrente intestato al condominio.
Finalità specifica del fondo condominiale è “l’amministrazione economica del condominio”; di conseguenza, aspetto fondamentale appare essere quello della sua esclusività: esso deve essere dedicato solo ed esclusivamente alla raccolta dei fondi condominiali, senza che possa esser ammessa confusione tra denaro del condominio e denaro dell’amministratore (Trib. Salerno, Sez. I, 3 maggio 2011).
Duplice vantaggio dell’accensione di un simile conto corrente esclusivo appare, pertanto, da un lato quello di garantire maggior trasparenza e chiarezza all’attività contabile dell’amministratore e, dall’altro, quello di fornire a quest’ultimo supporto nella corretta gestione del denaro condominiale. Una regolare tenuta della contabilità fiscale del fondo condominiale deve, poi, accompagnare l’apertura del conto corrente condominiale, nonché il suo concreto utilizzo: giustificazioni chiare e documentabili devono corrispondere a ciascuna operazione in entrata ed in uscita.
Siffatta regolarità è richiesta non soltanto ai fini della tutela della cassa, quanto piuttosto anche dell’amministratore stesso, il quale non potrà che trarre giovamento da una regolare e trasparente gestione contabile. Amministrando, infatti, del danaro altrui, questi risponderà di esso in prima persona; ne consegue che quanto più veritiera e corretta sarà la tenuta della cassa, tanto più semplice sarà, per l’amministratore, giustificare singole operazioni ed eventuali ammanchi.
AMMANCHI DI CASSA
La responsabilità dell’amministratore per eventuali ammanchi di cassa non si limita ai casi più gravi: conseguenze sono previste anche laddove le cifre in rosso siano esigue rispetto all’ammontare di denaro complessivamente gestito. Configura, infatti, reato di cui all’art. 646 cod. pen. (appropriazione indebita), peraltro nella forma più grave, quella prevista dal 2° comma, in quanto attuato, nella specie, in relazione a depositi “necessari”, sia l’appropriazione, da parte dell’amministratore, di parte del danaro condominiale (c.d. ammanchi di cassa) che della sua totalità (ipotesi, questa, definita furto della cassa per distinguerla dalla precedente). Il reato così compiuto è, poi, aggravato ulteriormente in quanto commesso con l’abuso di prestazione d’opera, come sancito dall’art. 61 n. 11 cod. pen.
Appare, pertanto, evidente come il delitto in questione, punito dal Codice Penale con una pena nel massimo non inferiore a 4 anni di reclusione, si configuri indipendentemente dall’entità della somma di cui l’amministratore si sia appropriato, quindi anche in caso di ammanchi di cassa di modesto importo.
Sul punto è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 36022 del 12 luglio 2011.
Si chiarisce, in quella sede, che “il reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p. è configurabile, nei confronti dell’amministratore condominiale, anche nel caso in cui si sia accertata una piccola differenza di cassa” (Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 36022 del 12/07/2011).
In particolare, nel caso sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità, l’ammanco di cassa imputato all’amministratore corrispondeva a poco più di 500 euro, a fronte di una cassa del valore complessivo di 12.000 euro. La modestia delle somme sottratte alla cassa non vale, però, a parere dei giudici di piazza Cavour, ad escludere il reato, osservato che “l’esiguità dell’importo potrebbe valere ad escludere il reato solo ove si dimostri che la minima differenza di cassa è riconducibile a cause diverse”; al di fuori di una siffatta ipotesi, “non può certo escludersi che anche un minimo importo possa configurare un’ipotesi appropriativa” (Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 36022/2011).
IL FURTO DI CASSA
La sottrazione integrale del fondo condominiale è, ovviamente, ipotesi ancor più grave rispetto a quella, appena ipotizzata, relativa agli ammanchi di cassa. Si fa riferimento, qui, al classico caso della fuga con la cassa, purtroppo non infrequente nella quotidianità, che si verifica quando l’amministratore preleva l’intero ammontare del fondo e si rende irreperibile.
Banalmente inquadrabile come furto, un comportamento siffatto indica, dal punto di vista tecnico-giuridico, come accennato, il più specifico reato di appropriazione indebita, aggravato, tra l’altro, dal fatto di esser commesso da soggetto che, per attuarlo, si avvantaggia della sua posizione di prestatore d’opera, in esecuzione della quale aveva la disponibilità del danaro sottratto.
Il reato in questione è, tuttavia, più lievemente punito rispetto al furto, benché perseguibile di ufficio (senza necessità, cioè, di presentazione della querela, con il rischio che comporta di lasciar scadere il termine che la legge impone per presentarla, essendo sufficiente una denuncia dell’accaduto fatta da chiunque affinché si avviino le indagini ed eventualmente il processo a carico dell’amministratore). Infatti, mentre per il furto la pena minima prevista va da un minimo di un anno ad un massimo di sei anni di carcere, per l’appropriazione indebita aggravata, come quella in parola, la pena, aumentata come indicato nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 646 cod. pen., non supera i 5 anni e 4 mesi di reclusione (e una multa di euro 1.835).
Ciò che non cambia, al di là della differenza nell’entità della pena massima irrogabile, tra la fattispecie del furto e quella della appropriazione indebita (aggravata) sono le conseguenze, anche pratiche, della condotta delittuosa: oltre, ovviamente, ad esser previsto l’obbligo di restituzione delle somme indebitamente sottratte, l’indagato potrà essere arrestato e, in caso di condanna, interdetto per uno o più anni dall’esercizio di cariche analoghe.
LA GIURISPRUDENZA
Ad occuparsi della materia in questa sede trattata è stata anche la Suprema Corte di Cassazione: “Nei confronti dell’amministratore di condominio è configurabile il reato di appropriazione indebita ex art. 646 cod. pen. anche a fronte di una piccola differenza di cassa”.
Lo ha stabilito, come anticipato sopra, la VI Sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 36022/2011, annullando la sentenza dalla Corte d’Appello di Palermo.
Premesso che l’imputata era stata condannata in primo grado per essersi appropriata indebitamente del denaro depositato nel conto corrente del condominio di cui era stata amministratrice, sulla base della perizia disposta nel corso della precedente istruttoria dibattimentale d’appello, i giudici di merito avevano ritenuto che l'ammanco, calcolato in poco più di un milione di vecchie lire a fronte della somma di circa 23.600.000 lire contestata inizialmente, “era frutto di una oggettiva confusione nella gestione contabile da parte dell’imputata”, così escludendo la sussistenza del reato di appropriazione indebita.
La motivazione adottata dalla Corte territoriale è da giudicarsi, a parere della Suprema Corte, illogica. A giustificare l’esclusione del reato è, infatti, esclusivamente la modestia dell’ammanco (ammanco attribuito, dai giudici di merito, a cause diverse non meglio identificate), laddove, invece, anche una minima differenza di importo può configurare gli estremi di un’appropriazione indebita.
Altra critica mossa dai giudici di legittimità è, poi, relativa alla scelta, operata dai giudici di merito, di fondare la propria decisione su una sola perizia, accettando le conclusioni in essa rassegnate in maniera acritica, “senza che tale scelta sia stata giustificata da una seria e approfondita comparazione tra le diverse perizie disposte nel corso del processo”, confronto che si rendeva tanto più necessario dal momento che le conclusioni dell’ultima perizia differivano profondamente da quelle dei precedenti accertamenti tecnici.
Per le ragioni sopra esposte, la Suprema Corte ha dichiarato l’annullamento della sentenza impugnata, rinviando nuovamente la causa ad altra sezione della Corte d’Appello di Palermo. Una brutta notizia per l’amministratrice di condominio, che aveva anche rinunciato alla prescrizione del reato contestato.
Alessia Calabrese - consulente UNAI